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L'arcivescovo Betori: "Giustizia per Niccolò Ciatti e Duccio Dini. Accoglienza con distribuzione dei beni"

Giuseppe Betori

Di seguito riportiamo il testo dell'omelia proclamata oggi in Cattedrale dall'Arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori nella Solennità di San Giovanni Battista.

Chi sia Giovanni e quale sia il suo posto nella storia della salvezza lo spiega l’apostolo Paolo ad Antiochia, presentando l’esistenza del Battista tutta dedicata alla persona e alla missione di Gesù: ne prepara la venuta, disponendo il popolo ad accoglierlo, ne proclama l’autorità e l’unicità, a cui egli stesso si inchina, perché solo in lui, Gesù, c’è salvezza.

Dalla pagina del vangelo di Luca impariamo, poi, che questa missione segna Giovanni fin dalla nascita. Egli, infatti, è un dono di Dio e, appartenendo a Dio, solo da lui può avere il nome, come rivendicano i genitori, contrastando l’opinione dei più, che vorrebbe rinchiudere quel bambino nelle categorie tutte umane dell’appartenenza a una stirpe, a una cerchia familiare.

«Giovanni è il suo nome» ribadisce invece il padre, tra la meraviglia di tutti (Lc 1,63). Giovanni, che significa «Il Signore usa misericordia». Con questo bambino prende avvio il tempo della liberazione e della salvezza dell’umanità, secondo il disegno di grazia del Signore. Giovanni, infatti, come illustrerà Zaccaria nel suo canto di lode, sarà «chiamato profeta dell’Altissimo» e andrà «innanzi al Signore a preparargli le strade» (Lc 1,76): E la venuta di Gesù nel mondo viene così celebrata nel medesimo canto: «Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79).

La liturgia ha fatto precedere queste indicazioni da un testo tratto dal libro di Isaia, il secondo canto del Servo del Signore. Questi viene accostato a Giovanni in quanto anch’egli è stato chiamato alla sua missione «dal seno materno», Dio ne ha pronunciato il nome fin dal grembo della madre (Is 49,1). Il riferimento al Servo del Signore illumina ulteriormente l’identità di Giovanni, in quanto colloca la sua missione nella storia dei profeti di Israele, di cui il Servo è, per così dire, la sintesi.

Il legame istituito dalla liturgia tra il Servo del Signore – «luce delle nazioni» (Is 49,6) – e Giovanni il Battista si estende fino a noi, orientando in modo decisivo la missione profetica della Chiesa, il compito affidato ai discepoli di Gesù di preparare nel cuore degli uomini le strade al Signore, perché tutti possano riconoscere in lui l’unico sole dell’umanità.

L’orizzonte della missione del Servo del Signore, come pure della missione di Giovanni e della Chiesa è l’orizzonte stesso di Gesù: l’intero mondo, «fino alle estremità della terra» (Is 49,6), fino alle periferie della condizione umana, diremmo oggi con il linguaggio di Papa Francesco. La nostra identità di discepoli di Gesù si misura sulla capacità di intercettare le attese della gente e di saperle illuminare con la parola del Vangelo.

Quali siano queste attese non è facile descriverlo con la dovuta completezza, ma ritengo che dovremmo essere particolarmente attenti agli effetti di quella che Papa Francesco usa spesso definire «cultura dello scarto». Occorre prendere atto che nella società contemporanea molti soffrono abbandono, emarginazione e perfino violenza, in quanto ritenuti ostacoli per chi cerca profitto, benessere, sicurezza. Su queste situazioni deve proiettarsi un giudizio storico guidato dai principi fondamentali del rispetto delle persona umana e della ricerca del bene comune, un giudizio da proporre senza timore di contrastare il pensiero egemone, con la stessa fermezza che animò la predicazione del Battista, fino al martirio.

La testimonianza dei discepoli di Cristo è chiamata a una presenza vigile e operosa fin dai primi istanti della vita. Non possiamo dimenticare che quest’anno ricorrono i quarant’anni dell’introduzione in Italia di una legge che intendeva regolamentare l’aborto, salvo poi essere percepita come se con essa l’aborto non sia più un male da evitare, ma un diritto da rivendicare. Cosa dire quando la legge viene usata per impedire la nascita di esistenze fragili e imperfette? Lo ha denunciato con forza di recente il Papa, non esitando ad accostare tale pratica al modo di fare dei nazisti: «Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi» (Discorso al Forum delle Associazioni Familiari, 16 giugno 2018). Nessuna difesa della persona umana può essere credibile se non comincia dal difendere la vita ancora non nata. Lontano da noi voler colpevolizzare le persone o coartarne la libertà; ma sì all’impegno concreto per rimuovere le cause che possono indurre all’aborto e per promuovere la tutela sociale della maternità. Siamo grati a quanti nei Centri di Aiuto alla Vita e in contesti simili combattono questa che è la vera battaglia di civiltà.

Nel contesto della cultura dello scarto sembra di poter collocare anche il voler impedire a dei figli di conoscere la loro vera origine, facendo scomparire la donna o l’uomo che li hanno generati, sostituiti da altre figure che, prendendosi cura di loro, potranno avere con loro legami di tipo familiare, ma nulla hanno a che fare con la loro generazione. Un pezzo della vita di queste creature, la loro genesi, viene scartata come irrilevante e quindi viene loro negata. Questi figlioli non li si protegge dicendo loro bugie, cancellando dalla loro memoria un legame che è stato necessario perché loro avessero la vita. Siamo qui di fronte a conseguenze che dovrebbero inquietare – si nega la realtà – di un cammino iniziato per dare stabilità a rapporti tra persone, ma che si è trasformato prima in una legislazione ambigua e incerta e poi in una comunicazione sempre più mistificante, generando confusione circa l’identità stessa della famiglia, volendo far credere che possano essere equivalenti il concetto di famiglia e quello di unione. Chi ne soffre è la condizione naturale dell’uomo, per la quale, tornando ancora alle parole di Papa Francesco, «la famiglia, immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».

A una radicale incertezza sul valore della vita della persona umana va ricondotto anche un clima in cui, per l’affermazione della propria volontà, la vita dell’altro giunge a essere considerata un ostacolo che si può eliminare. Nasce di qui l’esplosione dell’aggressività nella nostra società, quella che si manifesta nei tanti episodi di violenza di cui soffrono le donne, ma anche quella che subiscono i giovani che dobbiamo piangere vittime di episodi in cui magari si ritrovano coinvolti casualmente. I nomi di Niccolò e di Duccio sono ancora nei nostri cuori e vorremmo che i loro cari ci sentissero vicini, partecipi del loro dolore. Occorrono risposte ferme al diffondersi della violenza, rimuovendone i focolai e ostacolando le culture che la giustificano, scardinando la logica del sopruso dal cuore della gente. Su questa strada si incontra anche l’impegno per il controllo delle devianze in questa città e l’approntamento di ogni ragionevole intervento per proteggere la serena convivenza nei luoghi dell’incontro e della socialità, a cominciare dalle nostre piazze e dai nostri quartieri. Il rispetto della legalità va chiesto a tutti ed è condizione irrinunciabile di piena cittadinanza. E non si può accettare che su una delle chiese più care al cuore dei fiorentini e al rispetto di quanti ne amano l’arte e la cultura si possano impunemente affiggere striscioni che insultano la fede e la civiltà di un popolo. E c’è da chiedersi perché si continui a tollerare che i sagrati delle chiese siano luoghi privilegiati di comportamenti illeciti.

Ancora, la logica dello scarto tocca la persona umana quando questa trova chiusa la porta dell’accoglienza, perché c’è chi non la ritiene sufficientemente giustificata per chi aspira a una condizione di pace, a fuggire dagli spettri della fame confidando nella condivisione fraterna dei beni della terra, a una possibilità di vita migliore per sé e per i propri cari. Ci sono ovviamente dei limiti connessi alla misura delle risorse di cui si dispone, ma non possiamo dire che il nostro è un Paese che non può condividere perché esso stesso in stato di povertà. Basterebbe guardare all’accoglienza di profughi in Paesi come il Libano per doverci vergognare di un solo rifiuto. Certo, non mancano anche tra noi sacche di miseria e disagio, ma questo dovrebbe sollecitare piuttosto una più equa distribuzione dei beni e una presa in carico di tutte le povertà, senza eccezioni. E se è vero che tutti i Paesi in Europa devono condividere i nostri sforzi, la ricerca di un maggiore coinvolgimento degli altri, non può giustificare nostre chiusure. Si aprano piuttosto corridoi umanitari e si promuovano politiche concrete di sviluppo nei paesi di partenza dei migranti; se ne accompagni l’accoglienza con percorsi di integrazione e non si mettano i poveri contro i poveri per scopi di propaganda. Un clima di divisione è sempre nocivo per una società, soprattutto quando prende a pretesto le origini etniche. La dignità della persona umana è un principio irrinunciabile e precede cittadinanza, provenienza, etnia, cultura, religione.

E tra scarto e dignità della persona si colloca anche la situazione del mondo giovanile troppo spesso privato dell’approdo al lavoro nella nostra società. La voglia di rendita sembra prevalere su quella di impresa. E il consumismo non apre orizzonti di lavoro significativi, fin quando lo scambio commerciale prevale sulla ricerca e sulla produzione di beni essenziali. È il paradigma economico che esige una conversione che vada nella direzione della persona e non del profitto. Ridare speranza ai giovani è fondamentale per l’equilibrio della società, anche al fine di ridurre i rischi delle depressioni e delle devianze.

Non posso, infine, fare a meno di dire una parola più diretta a questa città. La perdita di identità della nostra città sembra infatti strettamente connessa a non considerare sufficientemente l’esigenza di creare un tessuto sociale forte, fatto di famiglie e di una rete di risposta ai bisogni primari delle persone, lasciando invece spazio a una logica di profitto e di rendita, che intercetta sì il flusso turistico ma svilisce l’immagine stessa di Firenze. Si tratta di problematiche che non hanno soltanto risvolti economici, ma prima ancora valoriali e identitari, di una identità non chiusa, ma dialogica e inclusiva, come nelle nostre migliori tradizioni, e per questo densa di contenuti e di riferimenti alla persona, alla sua dignità, alla socialità e al bene comune. Per aprire orizzonti positivi è chiesta una progettualità che non tema il nuovo, cercando di convergere tutti su decisioni sagge, guidate dalla ricerca del bene della città e del suo futuro. Confrontarsi per condividere dovrebbe essere una regola. Tutti vogliamo un città viva; non possiamo accettare di essere un museo, pur consapevoli della responsabilità che ci viene dall’eccezionale eredità artistica e culturale che ci è stata affidata dalla storia. E questo non è solo doveroso, ma possibile. Lo stare tra la gente, dono prezioso della visita pastorale nella Diocesi, mi conforta ogni giorno nella scoperta di legami operosi, di silenziose opere di carità e solidarietà, di preziosa e costante preghiera, di attese di significato e di speranza, di lavoro quotidiano per contribuire al bene comune. Firenze è questa, i fiorentini sono questi, non dimentichiamolo. Invochiamo i nostri grandi del secolo scorso, a partire da Giorgio La Pira, che dall’alto proteggano la nostra amata e meravigliosa città.

Queste considerazioni che mi sono permesso di proporre nel giorno della festa identitaria di Firenze, scaturiscono tutte dall’amore per la verità e per le persone che formano la nostra comunità. Vogliate accoglierle come il contributo che scaturisce dalla fedeltà al Vangelo nell’ascolto di quanto sta a cuore a tutti coloro che amano Firenze.

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