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Muhammad Ali a Mosca
Questo blog si è già occupato diverse volte di Muhammad Ali, uno dei protagonisti del Novecento che più di altri ha vissuto in bilico fra sport e storia. Dalla sorprendente vittoria contro il minaccioso campione Sonny Liston, alla riconquista del titolo di Kinshasa, a spese dell’apparentemente imbattibile George Foreman e alla successiva, drammatica difesa della corona mondiale contro l’indomabile Joe Frazier , dal celeberrimo incontro con i Beatles al rifiuto di combattere in Vietnam che gli costò una lunga squalifica, “il più grande” ha percorso con disinvoltura ineguagliata il sottile crinale fra l’olimpo sportivo e l’agone politico-sociale.
Ali è stato allo stesso tempo, per milioni di persone, un eroe osannato e un uomo disprezzato, un modello da seguire e un nemico da combattere. Ha aspramente lottato contro l’establishment e ha incarnato come pochi altri la riuscita del “sogno americano”; è stato una spina nel fianco dell’America bianca, protestante e benpensante nei turbolenti anni ‘60, e ha accumulato per sé e per molti membri del suo elefantiaco entourage ricchezze mirabolanti; è stato capace di mobilitare i giovani bianchi radicalizzati dei campus universitari e ha diviso la comunità di colore con la conversione all’Islam e al nazionalismo nero; ha diffuso i valori della negritudine e dell’orgoglio nero, e ha rinforzato la credenza che lo sport e il duro lavoro assicurano inevitabilmente la promozione e l’elevazione sociale.
Inoltre, allo stesso modo in cui il pugile si è trasformato da leggiadro ballerino del ring a stoico e statico incassatore di colpi terribili, la sua figura pubblica si è mutata nel tempo da polarizzante minaccia eversiva a ecumenica icona di coraggio, pace e libero pensiero. Come è stato osservato dal giornalista americano Dave Zirin, il destabilizzante messaggio originario di Ali è stato assorbito e neutralizzato in slogan e parole d’ordine buone per magliette da bancarella, mentre secondo il sociologo australiano Stephen Townsend il sovversivo impasto di fede, presunzione, virtù, compassione, violenza, orgoglio, determinazione, poesia e indipendenza è stato assorbito, digerito e riusato in una forma innocua di ribellismo che deriva il proprio fascino dal suo superficiale aspetto di pericolo e rivolta.
La reinvenzione, e la conseguente neutralizzazione, di Ali avvenne per tappe successive, cominciando con l’incontro alla Casa Bianca con il presidente Gerald Ford nel dicembre 1974 e soprattutto con la visita del pugile in Unione Sovietica che ebbe luogo nel giugno 1978.
Mosca si stava all'epoca preparando a ospitare i Giochi olimpici del 1980 (che gli Usa e altri paesi occidentali avrebbero boicottato) e Anatoly Dobronyn, ambasciatore sovietico a Washington, pensò di invitare Muhammad Ali come segno di conciliazione fra le superpotenze, in una fase storica in cui le relazioni Est-Ovest erano particolarmente tese sulla maggior parte dell’agenda geopolitica.
Ali arrivò nella capitale russa insieme alla moglie Veronica, al manager e ad altri membri del suo staff. Da musulmano praticante, espresse il desiderio di visitare l'Uzbekistan, la repubblica sovietica con il maggior numero di islamici e si recò a Tashkent, Samarcanda e Bukhara, dove fu accolto con grande considerazione e festeggiato dai suoi ospiti durante pranzi pantagruelici. Di solito, Ali era piuttosto parco nel mangiare, ma stavolta non poté resistere e più tardi ammise di aver messo su quasi quattro chili durante il breve soggiorno nell'Asia Centrale.
Ritornato a Mosca, chiese e ottenne di incontrare i pugili locali. Ali aveva da poco perduto la corona mondiale a vantaggio dell'ex marine Leon Spinks - l'avrebbe riconquistata con una sofferta vittoria ai punti il successivo 15 settembre -, ma per i boxeur sovietici fu comunque una grande emozione misurarsi contro "il più grande".
L'evento più significativo della trasferta avvenne il 19 giugno 1978, quando Ali fu ricevuto al Cremlino dal 71enne segretario del PCUS Leonid Brežnev, che per la prima volta si intrattenne con uno sportivo straniero. Il faccia-a-faccia era stato ampiamente reclamizzato dai giornali sovietici, sui quali Ali era sempre stato oggetto di alto rispetto, a causa del suo rifiuto della coscrizione obbligatoria ai tempi del Vietnam e del suo impegno per l'emancipazione degli afro-americani, circostanza che lo stesso leader comunista volle sottolineare nel suo discorso di benvenuto.
I due uomini, alla tipica maniera russa, si baciarono sulle guance e rimasero a parlare per oltre mezz'ora. Brežnev donò al campione un orologio e un libro di memorie autografato, e lasciò che i fotografi li riprendessero in molte pose distese e amichevoli.
Il 21 giugno 1978, Ali fece ritorno negli Stati Uniti a bordo di un aereo dell’Aeroflot e si presentò entusiasta ai giornalisti: «Sono stato al Cremlino per 35 minuti, come un capo di stato. È stato un grande onore per un uomo di colore come me, per uno che pochi anni fa, qui in America, neanche poteva mangiare nello stesso ristorante con i bianchi. Il sig. Brežnev – continuò il pugile – è una persona mite e calma. Gli ho spiegato che il nostro presidente Jimmy Carter non vuole nient’altro che la pace e ora so che anche il sig. Brežnev è un uomo pacifico, che governa un paese pacifico».
Benché avesse riportato una magnifica impressione dell’Urss, Ali concluse dichiarandosi felice di essere tornato a casa: «Amo l’America, amo il cibo americano, la TV, il cinema, le autostrade e le auto, la bandiera e il presidente. E amo anche la verità».
Paolo Bruschi