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Duecento anni di concia, il racconto di Vallini in occasione della mostra di Luchini

Nella mia veste di cultore di storia, conclusi un po’ di tempo fa, una ricerca sulla concia al vegetale che parte dal Basso Medio Evo: Conciaj, conce, lavorazioni di pelle, ma anche mercati e snodi di traffici, pelli da conciare o anche secche e salate. La ripropongo in occasione di una prossima mostra di Riccardo Luchini incentrata sui processi conciari, a Casa-Concia a Ponte a Egola. In questa mia indagine storico-sociologica e di costume, si ripercorrono dalla prima conceria dei Fratelli Pro a Santa Croce sull’Arno nel 1814 e poi dei Fratelli Dani a Ponte a Egola nel 1852, circa duecento anni di concia dall’età moderna fino ad oggi.

Già del XIV secolo, si trovano nella zona una serie di lavoratori del cuoio nelle piccole botteghe artigiane fra i quali il pelliparius che era il vero e proprio conciapelli. Dalle campagne del sanminiatese, emergono nomi di pellicciai e cuoiai: Vico Pellicciaio e Antonio di Cieccho, solo per fare alcuni nomi, e si trovano le tracce documentarie di un' artigianale "concia delle pelli". Allora Santa Croce sull’Arno era cinta di mura e diventato un castello o meglio una terra nuova già dal 1252 per volere di Lucca in funzione antifiorentina.

Nel Settecento, si parla di Santa Croce sull’Arno come di un fiorente mercato di pelli e di cuoi che provenivano dal porto pisano risalendo l’Arno, e dai centri conciari della Toscana fra i quali Pescia, Lucca, Livorno, Empoli, Firenze, e soprattutto Prato, Pistoia, Pietrasanta, Piombino e Volterra. Nell' Ottocento si ripercorrono le tappe della nascita dell’industria conciaria, dei primi conciatori e dei luoghi della concia. Si mette a fuoco la trafila di vetturali-mercanti-negozianti che è stata una costante delle famiglie Pro, Pacchiani, Turi e Cambi in Santa Croce, e Dani, Billeri, Benedetti e Matteucci a Ponte a Egola.

È delineata la diversa origine della conceria in Santa Croce e a Ponte a Egola. La prima legata all’Arno e alla crisi dei navicelli, la seconda ai traffici in Valdegola e nel livornese. Nel Novecento le innovazioni e gli sviluppi legati alle due guerre mondiali. L’autarchia stimolò e incrementò la produzione della “vacchetta” e del cuoio da suola, secondo l’antica formula con le scorze di lecci e castagni e della concia in fossa. Si incontrano singolari figure di imprenditori negli anni quaranta e cinquanta del Novecento. Accanto ai Cerrini, Allegrini e Duranti, Bertelli di Santa Croce e altri ben descritti nel volume, sulla riva sinistra dell’Arno, a Ponte a Egola, furono le famiglie degli Amorini, Matteucci, Marianelli, Valori ed altri, i pionieri dell’arte della concia.

Sintetizzare una storia di duecento anni non solo di lavoro ma di vita, è arduo. Qui si può accennare che seguendo il filo rosso della narrazioine si vive l’ addio alla Casa-concia, la nascita del l'associazionismo: Consorzio conciatori di Ponte a Egola nel 1967, Associazione conciatori di Santa Croce, 1976, che si rivelò una forza vincente. Si ripercorre la storia delle razionalizzazioni produttive: grandi ambienti luminosi e automatizzati; si affrontarono le difficili soluzioni ambientali: inquinamento aria/terra/acqua, trovando in alcuni casi soluzioni originali: uso di fanghi compatibili in agricoltura. Le pelli e il cuoio sono competitivi nel Villaggio globale; da un articolo sul periodico La Tramontana si legge: “Dall’abbigliamento agli accessori, tutto era pelle, si conciava di tutto: squali, lucertole, camosci, serpenti, struzzi, rospi. Agli animali da sempre adoperati in pelletteria come per le tomaie si accostavano altri riscoperti al fine di raggiungere risultati estetici inconsueti e sorprendenti. La pelle si presentava opaca, laccata, verniciata, lucida, a tinta unita o ad arlecchino. I colori erano intensi, nordici, vegetali, brinati, boreali, ramati, bruniti e beigiati. La creatività era esaltata dai materiali usati e si facevano superfici erose, incise, ondulate, invecchiate, siliconate. Era una girandola di inventive la cui parola d’ordine suonava un ritorno all’estetica del meraviglioso, dell’inconsueto. Si fondevano arte povera e lusso, romanticismo e “vintage”.

Si consolidò l’incontro con la moda, il recupero della tradizione: antico e nuovo che dura ancora oggi ed è la formula vincente. Ciò che ha permesso di ridurre al minimo lo tsunami della crisi mondiale.

Valerio Vallini

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