L'Accademia della Crusca 'bacchetta' il MIUR per l'uso "sovrabbondante e non di rado inutile" dell'inglese. Il pomo della discordia è il 'Sillabo programmatico', documento pubblicato a marzo dal Ministero dell'Istruzione e dedicato alla promozione dell'imprenditorialità nelle scuole statali secondarie di secondo grado.
Per il Gruppo Incipit questo evidenzierebbe il frequente "abbandono dell'italiano" diventato ormai "programmatico, organico" e "un modello su cui improntare la formazione dei giovani italiani"
Non si è fatta attendere la risposta del Ministro Fedeli: "Non capisco, sinceramente, da quali documenti o atti del MIUR ricaviate la presunta volontà ministeriale di, cito, 'promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana' [...] È sbagliato, secondo me porre in alternativa l'italiano, il cui valore va non solo difeso, ma anche consolidato e promosso, come ha fatto il Ministero che ho avuto in quest'ultimo anno e mezzo l'onore di guidare, e l'inglese, che ritengo debba diventare lingua obbligatoria fin dalla scuola dell'infanzia, insegnato da docenti madrelingua"
La nota del Gruppo Incipit
Il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) ha pubblicato lo scorso 14 marzo un documento programmatico volto a promuovere l’educazione all’imprenditorialità nelle scuole statali secondarie di II grado.
Senza pronunciarsi sul merito – che pur si presterebbe a varie considerazioni – il Gruppo Incipit guarda con grande preoccupazione alla lingua con cui tale documento programmatico è stato redatto, tenuto conto della sua importanza all’interno dell’istituzione scolastica.
Il Gruppo Incipit aveva già attirato l’attenzione sulla forte propensione del sistema universitario italiano a impiegare termini ed espressioni del mondo economico-aziendale (cfr. comunicato stampa n. 6 del 17 giugno 2016), ma constata che nel documento in questione tale tendenza ha raggiunto un nuovo livello di intensità: l’adozione di termini ed espressioni anglicizzanti non è più occasionale, imputabile magari a ingenue velleità di “anglocosmesi”, bensì diventa programmatica, organica e assurge a modello su cui improntare la formazione dei giovani italiani.
È infatti sufficiente scorrere il Sillabo per la scuola secondaria di secondo grado per verificare la meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari di lingua intesa quale strumento di comunicazione e di conoscenza. Concretamente, questo pare il messaggio del Sillabo: per imparare a essere imprenditori non occorre saper lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building, non serve progettare, ma occorre conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck e pitch day.
Più che un’educazione all’imprenditorialità, questo documento sembra promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana e delle sue risorse nei programmi formativi delle forze imprenditoriali del futuro. Pare una sorta di contraffazione paradigmatica della cultura e del patrimonio italiano: è così che si vogliono promuovere e valorizzare le eccellenze italiane, il “Made in Italy”?
Proprio in considerazione della gravità del modello linguistico-concettuale offerto dal Sillabo, il Gruppo Incipit, nella presente occasione, rinuncia a proposte di traducenti italiani (del resto sarebbe necessario tradurre l’intero documento), ma rivolge un appello ai responsabili del MIUR, affinché si usi maggiore rispetto nei confronti della lingua e della cultura italiana.
Ricordiamo che il gruppo Incipit si occupa di esaminare e valutare neologismi e forestierismi ‘incipienti’, scelti tra quelli impiegati nel campo della vita civile e sociale, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana, al fine di proporre eventuali sostituenti italiani.
Incipit è costituito da Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Valeria Della Valle, Jean-Luc Egger, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Alessio Petralli, Luca Serianni, Annamaria Testa.
La lettera della Ministra Valeria Fedeli
Care e cari componenti del Gruppo Incipit,
ho letto con molta attenzione il vostro “Comunicato numero 10”, titolato, in modo un po’ curioso, “Sillabo per l’imprenditorialità o sillabario per l’abbandono della lingua italiana?”. Non capisco, sinceramente, da quali documenti o atti del MIUR ricaviate la presunta volontà ministeriale di - cito - “promuovere un abban-dono sistematico della lingua italiana”. Sottolineate che nel Silla-bo pubblicato lo scorso 14 marzo dal MIUR e finalizzato alla “Promozione di un percorso di Educazione all’imprenditorialità nelle scuole di secondo grado Statali e Paritarie in Italia e all’estero” compaiono decine di espressioni in lingua inglese. Ma questa vi sembra una ragione sufficiente per parlare di “gravità del modello linguistico-concettuale offerto dal Sillabo”? Vi si po-trebbe rispondere con una battuta e replicare che la presenza di alcuni termini inglesi, all’interno di un documento di 11 pagine e composto da 3.124 parole, difficilmente potrebbe sorreggere un intero “modello linguistico-concettuale”. Ma la questione che sollevate è seria e, naturalmente, merita una risposta non liquida-toria. Già in passato, quando l’Accademia della Crusca accusò il MIUR di voler “cancellare” l’italiano per via dell’impiego obbli-gatorio dell’inglese nel bando per i Progetti di Ricerca d’Interesse Nazionale (Prin), ho avuto modo di esprimere la mia contrarietà nei confronti di un ragionamento fondato su una con-trapposizione artificiale e artificiosa tra lingue. È sbagliato, se-condo me, porre in alternativa l’italiano – il cui valore va non so-lo difeso, ma anche consolidato e promosso, come ha fatto il Mi-nistero che ho avuto in quest’ultimo anno e mezzo l’onore di 2 guidare – e l’inglese – che ritengo debba diventare lingua obbligatoria fin dalla scuola dell’infanzia, insegnato da docenti madrelingua. E vale oggi anche quel che dissi allora riguardo la vicenda dei Prin: la redazione delle domande per il bando in lingua inglese appare funzionalmente indispensabile, considerato che le lingue si definiscono per quelli che sono i loro spettri d’impiego e che l’inglese è innegabilmente la lingua veicolare della comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori. A ciò si aggiunge non solo che il Sillabo riguarda la promozione all’imprenditorialità, come è chiaro fin dal titolo del documento, “in Italia e all’estero”, ma anche la settorialità dell’argomento in questione. Qui, però, la questione che voi ponete non riguarda l’impiego dell’italiano o dell’inglese ma la presenza di “prestiti” inglesi nel dettato italiano. Che è ben diversa rispetto alla falsa alternativa “inglese” contro “italiano”. Una questione che, a maggior ragione, è legata alla funzionalità dei testi. E a proposito della pressione dell’inglese sui nostri lessici settoriali, sui gerghi specialistici, tempo fa un illustre componente dell’Accademia della Crusca quale è stato Tullio De Mauro scrisse giustamente che si trattava di “una pressione benefica perché impariamo a dire cose che altrimenti non sapremmo come dire”. Non vi sfuggirà che il ricorso a termini stranieri è tutt’altro che “inutile” (come scrivete nel vostro documento) qualora ci si riferisca ad ambiti strettamente specialistici. Nella storia delle lingue è sempre stato e sempre sarà così. Cosa sarebbe stato l’italiano senza i prestiti arabi o senza gli stessi latinismi? Non vi sfuggirà, ne sono convinta, che l’utilizzo di termini stranieri si rivela funzionalmente necessario quando questo “prestito” consente una funzione designativa del tutto inequivoca, specie se si accompagna all’introduzione di nuove “cose”, nuovi “concetti” e delle relative parole. Ciò vale per “team building”, “budget” o “crowdfunding” quando si scrive di imprenditorialità, così come vale oggi per i termini greci o latini “crudi” utilizzati in studi di archeologia, papirologia, esegetica, solo per fare alcuni esempi, magari in grafia originale. O come valeva in passato per le parole arabe quando si scriveva di matematica o di geometria. Chiudo ricordando ancora una volta quanto fatto da questo Ministero negli ultimi mesi per promuovere l’italiano, dalla Commissione presieduta dal Professor Luca Serianni alle “Olimpiadi dell’Italiano” (vi partecipano ogni anno più di 150 mila ragazze e ragazzi), dal progetto triennale con la “Dante Alighieri” per 3 l’internazionalizzazione della nostra lingua (promosso e finanziato dal MIUR) alle iniziative in accordo con MAECI e MIBACT per la promozione della cultura e della lingua italiane all’estero (inclusi gli “Stati generali della lingua italiana”) alla delega della legge 107 per la cultura umanistica, nella quale abbiamo volutamente inserire il “tema linguistico-creativo” dedicato alla conoscenza e alla pratica “della lingua italiana, delle sue radici classiche, dei linguaggi e dei dialetti parlati in Italia”. Di fronte a questo quadro, si stenta a credere che qualcuno possa imputare al MIUR la volontà di “promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana”. Soprattutto se quel qualcuno ha risposto a una petizione titolata #dilloinitaliano fondando un gruppo dal nome “Incipit”. E non è una semplice battuta, perché sono certa che per voi questo termine latino abbia precise connotazioni, evochi significati, che il termine italiano “inizio” forse non rispecchia. E quindi sono certa che anche se avete scelto come nome “Gruppo Incipit” continuerete a promuovere, come sta facendo il Miur, il valore della lingua italiana. Un cordiale saluto, Valeria Fedeli